Via Zuretti.
Non è lontana dalla Stazione Centrale nella quale, negli anni '50, arrivavano a migliaia le valigie di cartone degli allora migranti - nostri nonni o nostri padri- proveniente dalle zone più povere d'Italia.
Ed è vicina anche alla via Gluck dove, ormai da tempo, al posto dell'erba ora c'è una città, come recitava la famosa canzone.
Andateci, in via Zuretti.
Scoprirete anche lì cemento e cemento. Ma non solo.
In un angolo, quasi in fondo alla via, troverete dei mazzi di fiori, tanti fiori.
E in mezzo ai petali, una moltitudine di bigliettini scritti a penna e col cuore da persone di ogni età.
Sono messaggi di scuse e d'amore rivolti a quel ragazzo che sorride nelle foto attaccate alla parete.
Lì, di fronte a quelle foto, ci troverete anche gente che si ferma piangendo e altra che, quasi per rispetto, si allontana frettolosamente con gli occhi lucidi.
E se guardate attentamente il marciapiede, vedrete ancora del sangue per terra.
Capirete allora il senso della pietà e del dolore e il senso della vergogna e dell'orrore per una violenza bestiale frutto di un odio razziale fomentato e iniettato ad arte, giorno dopo giorno, da un potere che vuol fare apparire il diverso come il problema e il nemico principale per questo paese.
Pur che questo diverso sia povero, naturalmente.
Se andate in via Zuretti portateci i vostri figli e fate vedere loro come oggi, nel 2008, muore un fiore, nel pieno della sua vita, ucciso dall'indifferenza e dall'ignoranza.
Gabriele Calvanelli